Oggi quando si parla di digiuno si pensa generalmente al digiuno intermittente, alla dieta mima-digiuno, al digiuno detox (qualsiasi cosa voglia dire…), insomma al digiuno come strumento dietetico (nella peggiore delle sue accezioni) utile ai fini della perdita di peso ma anche, in una qualche misura, all’assoluzione dai peccati di gola [leggere queste parole con estremo senso critico, ovviamente].
Ma di digiuni ne esistono diverse forme, e non tutti sono legati al concetto moderno di gestione del peso corporeo o comunque al ritrovamento di un equilibrio alimentare perso (o mai avuto o ricercato in altri modi).
Pertanto il digiuno può essere:
Una pratica religiosa
Uno strumento di controllo del peso corporeo
Una pratica forzata dovuta a condizioni patologiche oppure perché quando il cibo scarseggia non si può fare altrimenti, pertanto sarebbe corretto parlare di forte restrizione calorica più che di digiuno.
Delle tre tipologie di digiuno, quella che ha come scopo la perdita di peso rappresenta la più insidiosa in termini di compromissione della salute psicofisica, perché può contribuire a compromette il rapporto col cibo o a rafforzare un disturbo alimentare già manifesto. In particolar modo quando la pratica viene autogestita e applicata in maniera poco consapevole, con risultati che possono arrivare a compromettere seriamente funzioni fisiologiche sul lungo periodo che vanno ben oltre la perdita di massa muscolare.
Digiuni di breve durata, fino alle 24 ore, praticati saltuariamente e da soggetti in buono stato di salute e mantenendo un corretto stato di idratazione, non compromettono funzioni vitali perché il corpo mette in atto meccanismi compensativi per garantire il corretto funzionamento di organi e tessuti. Questo però non ha alcun effetto sulla perdita di massa grassa, pertanto la pratica ai fini del dimagrimento lascia il tempo che trova. Per chiunque ancora ci credesse ho da dare una brutta notizia: non esiste il dimagrimento immediato.
I digiuni più prolungati prevedono astensione dal cibo per più giorni e la sola introduzione di liquidi. Questi digiuni rappresentano invece una fonte di stress per il corpo in risposta al quale aumenta il rilascio di ormoni come glucagone, adrenalina e cortisolo, con conseguenti adattamenti metabolici che inizialmente determinano un aumento della concentrazione e dell’energia, ma che se protratti in maniera continuativa non apportano però alcun vantaggio in termini di perdita della massa grassa rispetto a restrizioni caloriche ponderate e ben bilanciate su tempi più lunghi. Al contrario il risultato a cui portano queste pratiche di digiuno è la riacquisizione del peso perso spesso con una percentuale di massa grassa superiore a prima.
Nei contesti in cui il rapporto col cibo è già in partenza disfunzionale si può inserire in maniera infida la pratica del digiuno religioso. Ramadan, fioretti quaresimali e così via, sono pratiche che nascono certamente con intento purificatorio ed espiatorio legato alla fede. Soprattutto in passato la rinuncia a beni materiali e carnali come imposizione di autodisciplina veniva praticata da chi aveva accesso a quell’abbondanza che permetteva il lusso dell’astinenza volontaria.
Ma la rinuncia al cibo, il digiuno, l’astinenza dai cibi preferiti per un determinato periodo di tempo come previsto da determinate pratiche religiose, per chi vive un rapporto disfunzionale col cibo può rappresentare un serio problema.
Per una persona che ha alle spalle una lunga storia di diete fallimentari, un difficile rapporto col cibo e col corpo, quanto potrebbe essere funzionale al disturbo alimentare un periodo di privazione? Potrebbe portarla poi ad abusare e abbuffarsi, oppure a restringere in maniera indisturbata?
Il rischio concreto esiste già nella quotidianità a causa della restrizione cognitiva, aggiungere anche l’applicazione pratica della privazione potrebbe rivelarsi una combinazione pericolosa.
In quest’ottica sono parecchi i racconti relativi a Sante di epoca medievale (quindi parliamo prevalentemente di figure femminili) per le quali l’astensione dal cibo si iscrivesse in una più ampia condotta di vita che consentiva alle donne di svolgere una funzione sociale ben più incisiva di quella loro riservata tradizionalmente.
‘Caterina da Siena, per esempio poté, grazie alla rinuncia al mondo, non solo sottrarsi al matrimonio ma anche acquisire una formazione culturale che altrimenti le sarebbe stata preclusa. Imparò a leggere e a scrivere ed ebbe un ruolo politico e sociale di primo piano nella società del tempo. Partecipò a missioni diplomatiche presso la sede papale, contribuendo al ritorno del pontefice da Avignone a Roma.’
La condotta di Caterina può essere interpretata, in termini moderni, come segno di affermazione personale. Il digiuno era il segnale di una volontà di fuga da un ruolo sociale predeterminato: quello di moglie e di madre.
Potrebbero le sante digiunatrici e le ragazze affette da anoressia oggi partecipare ad un medesimo meccanismo psicologico fortemente legato a un ambiente sociale oppressivo per la condizione femminile – ambiente che spinge la giovane donna di ieri e di oggi a liberarsi di un mondo intollerabilmente soffocante attraverso il rifiuto della società, della vita e del proprio corpo?
Con le dovute differenze relative al contesto storico e sociale e senza mai troppo generalizzare, non si può fare a meno di osservare elementi in comune riferibili ad una moderna patologia anoressica.
Arriviamo infine alla restrizione calorica spinta, quindi non un vero e proprio digiuno in senso stretto, praticata per necessità legate alla salute e sotto stretto controllo medico (pensiamo a persone in forte eccesso ponderale che dovendosi sottoporre a operazioni hanno bisogno di perdere velocemente peso per agevolare la riuscita dell’operazione stessa). Eccetto che in casi del genere sottoporsi a severe restrizioni caloriche, fosse anche per pochi giorni alla settimana, non apporta nessun beneficio se a ciò non corrisponde poi una reale modifica alle abitudini quotidiane nell’ottica di acquisire un corretto stile di vita.
La scoperta, valsa il premio Nobel nel 2016 a Yoshinori Ohsumi, per cui stimolare il meccanismo di autofagia tramite il digiuno in malattie come il Parkinson e l’Alzheimer dove questo stesso meccanismo è compromesso, potrebbe contribuire all’eliminazione delle sostanze di scarto accumulate nelle cellule, ha aperto le porte ad una serie di speculazioni in merito. Come spesso accade, infatti, si è estrapolato un concetto ben preciso modificandone il significato ad un più generico “il digiuno allunga la vita e ringiovanisce”.
Accontentiamoci piuttosto di sapere che a determinare vantaggi duraturi in termini di composizione corporea e funzionamento ottimale dell’organismo, e quindi anche ritardo dei processi di invecchiamento cellulare, è la restrizione calorica moderata protratta nel tempo, e non singoli atti estremi di digiuno. E la restrizione calorica moderata non è altro che uno dei pilastri del modello mediterraneo, perché stiamo parlando di quella caratteristica che è la frugalità, ossia la sobrietà nel consumo di cibo.
Più semplice di quanto si pensi. Il problema è che pur di non ammettere che la soluzione sia la moderazione nel consumo e scelte alimentari più consapevoli, oltre che uno stile di vita attivo, quindi qualcosa che a conti fatti costa poco sia in termini di sostenibilità economica che di impegno, ci si appiglia a qualsiasi ‘rimedio’ presentato come rivoluzionario e risolutore.
La vera rivoluzione però è smetterla di credere a queste false promesse e assecondare chi le propone, riappropriandosi del piacere di consumare i pasti e di godere della convivialità, slegandosi dai valori morali attribuiti al cibo.
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