Mangiare è una necessità, farlo in maniera intelligente può risultare difficile. Perché?
Precisiamo la differenza tra mangiare e nutrirsi: mangiare è un atto che implica molteplici cose, dalle sensazioni ed emozioni scatenate dal cibo, alla convivialità e il piacere di condividere momenti. Nutrirsi rientra invece in quella serie di processi fisiologici che portano il corpo a soddisfare i bisogni metabolici per poter funzionare bene e avere le energie per svolgere le funzioni vitali. Dunque il primo è un atto del tutto volontario influenzato da fattori sociali, culturali e gusti personali, mentre il secondo è un processo involontario necessario e fisiologico.
Oggi si tende a mangiare in qualsiasi momento della giornata, troppo, in ogni dove, di tutto e di più. Soprattutto di più. Più di quello che l’organismo richiede e spesso di qualità scadente, ossia ciò di cui il corpo se ne fa poco, a discapito di cibi a bassa densità calorica e ricchi in fibra, vitamine e minerali.
Al contempo ci si muove poco, e spesso non basta andare in palestra quelle due ore a settimana per rimediare, bisognerebbe attivare il corpo quotidianamente rinunciando, quando si può ovviamente, a prendere la macchina per ricoprire distanze brevi, all’ascensore scegliendo le scale, approfittare per stare all’aria aperta (magari non in mezzo al traffico o rinchiusi nei centri commerciali) a fare attività fisica.
La dieta (intesa esclusivamente come ciò che mangiamo) da sola non basta. La dieta va intesa completa di tutte le sue componenti: alimentazione varia ed equilibrata, esercizio fisico, giusta quantità di sonno, giusta quantità di attività sessuale e il tempo libero per lasciare spazio alla creatività e rigenerare la mente con conseguenze straordinarie per il fisico. Ecco cosa occorre nel complesso: che si instauri un circolo virtuoso.
Sembra semplice a dirsi, ma evidentemente non è così scontato per tutt*. Dove stanno le principali difficoltà?
La prima in assoluto sta nell’avere una visione frammentata della cosa, tendendo a separare il concetto legato all’alimentazione da tutto il resto, come se soltanto concentrarsi su quello che mangiamo potesse cambiare tutto il resto.
L’alimentazione è solo una parte, per quanto preponderante nella gestione del peso e nel mantenimento di uno stato di salute ottimale, di un quadro molto più complesso che riguarda lo stile di vita che abbiamo, non può essere dissociata dal resto: esercizio fisico, abitudini legate all’abuso di alcol, fumo, sedentarietà, stress e insoddisfazioni legate all’ambito lavorativo e sentimentale. Il rapporto col cibo è spesso conseguenza di un problema a monte che riguarda altre sfere della nostra vita, poi può anche divenire causa di una serie di altre problematiche aggiuntive. Si ricorre solitamente al cibo, in particolare ad alcune categorie di cibi altamente calorici, quando si deve supplire a mancanza di affetto, in seguito a delusioni o eventi traumatici, quando si deve riempire uno spazio che andrebbe colmato con tutt’altro che col cibo. Si mangia per noia, per abitudini culturali e per conformarsi al resto della società che impone mode come “aperitivi quotidiani” o consumo di junk food associato a determinate occasioni o azioni (penso al cinema e i cestoni di popcorn con annessa bibitona super zuccherina e gasata, ma potrei far riferimento a molto altro).
Un’ulteriore difficoltà è data dunque dall’ambiente circostante (a partire da quello familiare) di tipo obesogeno, che crea le condizioni adatte ad abusare di cibo in qualsiasi momento e non soltanto in occasioni speciali. Il fatto di essere bombardat* da programmi che parlano di cibo, dalla gastronomia ai consigli che ormai chiunque dà in tema di nutrizione, contribuisce indubbiamente ad avere preconcetti e sviluppare atteggiamenti distorti nei confronti del cibo: dall’eccessivo consumo alle fobie alimentari (ortoressia).
In fine teniamo anche in considerazione l’aspetto genetico che ovviamente gioca la sua parte e che ci aiuta a comprendere il perché ci siano persone che non riescono, o se si con molta fatica, a controllarsi di fronte al cibo. Dunque parliamo di aspetti che non si limitano a puri atteggiamenti comportamentali ma di natura assai più complessa.
Ciascun* di noi possiede un corredo genetico caratterizzato da molte piccole ma significative variazioni che determinano un diverso atteggiamento verso il cibo e l’accumulo di adipe. Parecchi studi hanno indagato sulla natura di queste variazioni per comprenderne i meccanismi d’azione, i risultati hanno evidenziato che la maggior parte dei geni coinvolti nella regolazione dell’accumulo di grasso corporeo determinano specifiche strutture e funzioni delle aree del cervello deputate al controllo e alla regolazione dell’appetito controllati dalla leptina ( ormone che regola il metabolismo lipidico e il consumo energetico, prodotto soprattutto dal tessuto adiposo bianco e con bersagli recettoriali localizzati soprattutto nell’ipotalamo, regione del SNC deputata al controllo del peso, della fame, della sete e della temperatura corporea). Sono state riscontrate mutazioni che riguardano i geni che codificano per la proopiomelanocortina (POMC) e per il recettore dell’αMSH (MC4R) in individui obesi e non in individui normopeso a conferma del fatto che alterazioni del sistema di trasmissione neuro-ormonale melanocortina-proopiomelanocortina siano correlate all’obesità infantile in un percentuale che sta intorno al 6% . [1,2,3]
E’ dunque possibile che la tendenza ad introdurre quantità di cibo superiori ai fabbisogni, l’incapacità di gestire la sensazione di appetito, siano un fatto geneticamente determinato da mutazioni che compromettono i delicatissimi meccanismi di assunzione di cibo. Ciononostante la genetica rimane solo uno dei fattori (importantissimi ovviamente) coinvolti nel processo, ma non essendo l’unico può essere tenuto a bada. Come? Per esempio evitando di creare situazioni favorevoli all’insorgenza, in questi soggetti, di atteggiamenti iperfagici: ambiente obesogeno, somministrazione di cibi altamente calorici; proprio perché particolarmente suscettibili per cause genetiche.
In questo caso è fondamentale un lavoro a 360° che curi oltre che l’aspetto nutrizionale anche quello psicologico e che certamente va esteso il più possibile all’ambito familiare.
Dunque, le cause di una non riuscita della “dieta” possono essere molteplici e vanno indagate con il supporto di personale qualificato, partendo sempre dal presupposto che per riuscire nell’intento, qualunque esso sia, bisogna certamente essere motivat* e consapevoli di dover cambiare atteggiamento e qualche abitudine.
Comentários